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18/11/2015
Sapere dai sapori
A tavola si conosce l'uomo. Proverbi, massime, modi di
dire legati all'alimentazione sono assai numerosi, per lo più veri e propri
consigli atti a suggerire precise norme dietetiche:
• invece di fare tante diete strambe muovete meno i denti e più le gambe,
• chi sa legger di latino loda l'acqua e beve il vino;
• l'acqua rovina i ponti e il vino la testa;
• un grappino al mattino ti da il gusto del divino;
• chi troppo mangia per poco mangia;
• chi vuoi viver sano e lesto mangi poco e ceni presto;
• dogli di testa voglion minestra.
Taluni pensano idealisticamente che le forme artistiche e spirituali umane
facciano disdegnare a chi le pratica i piaceri materiali della vita, primo
fra questi il cibo, se non addirittura la golosità - vizio duro a morire - a
detta di alcuni unico vizio che cresce con l'età. Chi pensa ciò è in errore
poiché, tranne poche eccezioni che sempre confermano la regola, da sempre e
sicuramente per sempre i grandi artisti si sono dedicati con pienezza alla
soddisfazione delle loro papille gustative con intensità pari alla loro
fertilità intellettuale e di immaginazione. A conferma di questo, oltre a
numerosi scritti, ricordiamo la risposta che Cartesio dette al duca di
Duras quando questi vedendo sì grande pensatore gustare un pasto succulento
e abbondante gli disse (probabilmente incuriosito e forse anche
scandalizzato): "Non sapevo che i filosofi si abbandonassero a simili
ghiottonerie". Al che Cartesio rispose: "E Voi credete che la natura abbia
prodotto tante cose buone solo per gli ignoranti?".
Si può dedurre che chi ama la buona tavola sia un filosofo? Certamente non
in senso lato, ma in fondo in fondo un po' lo è, perché inconsapevolmente
attraverso i piaceri della tavola ha di fronte la chiave di lettura di un
libro di storia che racconta radici, tradizioni, culture dell'identità del
gruppo di appartenenza, e poi ancora perché ciò che esiste non può essere
diviso con un taglio netto fra materia e spirito. Anche l'antica filosofia
indiana, così intrigante e lontana dalla nostra, ci ricorda come in India il
cibo ha un profondo significato spirituale che unisce il nutrimento del
corpo a quello dell'anima: "il soffio vitale stesso è fatto di cibo".
Se non si mangia non si pensa, non si scrive, non si pittura, ecc..
Attraverso la fame, e dunque il mangiare, tutti gli altri sensi si attivano,
sviluppano e... creano. Il cibo si tramuta in vita e ci permette la
conoscenza e l'acquisizione culturale. Ha scritto Leonardo: "Facciamo nostra
vita con altrui morte, nelle cose morte rimane vita, la quale ricongiunta
agli stornaci dei vivi ripiglia vita sensitiva ed intellettiva". Ippocrate
stesso aveva già evidenziato l'influsso esercitato dagli stili alimentari
sui costumi ed usi caratterizzanti dei popoli. Dunque cibo = nutrimento e
cultura. La cucina è quindi una forma artistica che viaggia in parallelo nel
corso della storia con tutte le altre forme artistiche umane. Strumento
importante di conoscenza, conservazione, evoluzione del gusto, tradizioni.
Intermediaria fra alimento e popolazione, assurge così ad un ruolo
territoriale, con forti rapporti con tutto ciò che è strettamente legato al
territorio - oggi diremmo al tipico.
Considerati i legami che da sempre corrono fra buon cibo e buona musica,
buona letteratura, fra buona tavola e tavola: qual è l'importanza dei
nostri sapori per sapere? Già ! i nostri sapori: semplici, genuini, poveri e
al contempo ricchi di gusti irripetibili, per lo più scaturiti dall'antica
fame delle plebi italiche, da quello che per secoli è stato il sogno
alimentare della nostra gente, secolarmente denutrita e/o malnutrita che
utilizzava avanzi, prodotti dell'orto e della natura con abbondante
condimento di fantasia elevando così la nostra cucina a dignità di arte
culinaria. Cucina dei poveri ma ricca di gusto, quel gusto pulito, intenso,
ottenuto da poche cose dosate per lo più dall'inventiva, dalla disponibilità
economica e/o produttiva. E poi una ricchezza di colori irripetibili, e non
scordiamoci che il colore svolge una notevole funzione sull'appetibilità,
perché da sempre e soprattutto oggi si mangia prima con il naso, con gli
occhi, con le orecchie e talvolta solo in ultimo... con la bocca. [Provate
ad iniziare a mangiare ad occhi chiusi senza vedere le portate, vi renderete
conto che il sapore del cibo vi sembrerà diverso). Cucina povera dove
niente andava sprecato, ogni risorsa era trasformata perché l'obiettivo
finale era ottenere il massimo con il minimo. E lo sappiamo bene quanto ciò
abbia contribuito ad ottimizzare i nostri sapori.
Da quello che fino a pochi decenni fa è stato un rettangolo di terra di
emigrazioni Pistoia-Lucca-Pisa-Firenze ove (pensiamo a tante zone della
nostra provincia, come la svizzera pesciatina) permangono tuttora tangibili
segni d'abbandono, il bisogno aguzzò l'ingegno e fu: la cioncia, il
carcerato, lo scottino, la briciolata, la minestra di castagne e ceci e
tante e tante ancora. Cultura, conoscenza, tradizione si sviluppano quindi
anche proponendo sensazioni olfattive e gustative dei nostri antenati più o
meno lontani nel tempo e non soltanto attraverso itinerari naturalistici,
storici, architettonici, ecc. In tale modo viene certamente ottimizzato un
canale di conoscenza psico-fisico non inferiore alla vista di un'opera
d'arte e/o un rudere perché con la degustazione si velocizza
l'immedesimazione fra presente e passato restringendo la lontananza fra
spazio e tempo, allenando così anche al gusto e ad una più attenta e giusta
alimentazione.
E poi se è vero che una buona musica affratella gli uomini non è forse così
anche per la tavole o meglio la buona tavola? Il contatto fisico con i cibi
della tradizione velocizza l'abbattimento delle frontiere del tempo
soprattutto oggi sempre più la ricerca della qualità [talvolta anche della
qualità-quantitativa), del tipico, del prodotto della tradizione. Si ricorda
che un tempo, neppure troppo lontano, anche nella nostra provincia [come del
resto nella Toscana tutta), a vocazione prevalentemente rurale, la "Casa",
oltre ad essere un'abitazione era un fabbricato con funzioni tecniche atte
a soddisfare l'esigenza del fondo lavorativo sul quale sorgeva, diventavano
strumento di lavoro: in genere una spaziosa corte, un pozzo e/o cisterna per
l'acqua, un forno capace per il pane settimanale, un verone o loggia per le
faccende in tempo di pioggia, la colombaia, e poi ....il granaio, una stanza
per stendere le olive che, in genere, si poteva ricavare con un palco
semplice di tavole sopra la cucina e così via con alcune varianti a seconda
della collocazione ambientale e tipologia produttiva. Ad esempio non
troveremo nelle case di pianura il seccatoio delle castagne.
Lo svilupparsi delle "Fattorie", che sono poi una sorta di trasformazione
delle "Ville", cui dette incredibile impulso Ferdinando I iniziò un
significativo nuovo percorso per il nostro territorio (anche egli
discendente dei Medici, quelli famosi che in qualità di produttori di
farmaci dell'epoca, pare avessero scelto il loro nome "Medici" appunto, e il
relativo "stemma" di famiglia, in virtù della loro professione per il primo
e pensando alle pillole trasformate in palle per il secondo. Sarà vero?
Vero o no sta di fatto che essi sempre dimostrarono spiccato interesse per
la documentazione scientifica e sperimentale; ciò traspare anche dalle
pitture di nature morte del Bimbi e di molti altri. Contribuì ad incidere
ancor più su questo nuovo percorso Leopoldo I con il ministro Fossombroni.
Dalle opere di bonifica maggior impulso ebbe lo sviluppo rurale (anche se
ciò andava a discapito e segnava il lento declino di certe tipologie
produttive e lavorative e di quelle più strettamente legate alle zone
umide).
Olio, Vino, Pane in due parole "Triade Mediterranea" da sempre fondamento
delle nostre cucine e l'agricoltura tutta con l'indotto ad esse connesso
iniziarono una ulteriore e significativa ascesa per qualità e quantità. Non
poteva che essere così poiché il "progetto aziendale" e non più la "rendita"
divenne l'elemento determinante. Ecco dunque la "Villa" non sarà più fulcro
preponderante della vita di campagna, luogo di svago e di ammirazione di
colture e giardini, ma la "Fattoria" nuovo punto di riferimento. Tutto ciò
determinerà un ulteriore cambiamento naturalistico-ambientale della nostra
provincia e regione. Anche se la nostra bella Toscana, ricca di verdi pendii
collinari, prosperose campagne e lussureggianti montagne, aveva già subito
notevoli trasformazioni a livello paesaggistico grazie a zappe, bidenti,
scalpelli azionati per lo più, per molti secoli, dalla sola forza e dalla
fatica dell'uomo e del suo più vicino alleato: "il bovino".
Siamo ad oggi: epoca caratterizzata dall'abbondanza, meglio sarebbe dire
dagli eccessi, sempre più incoraggiati dai messaggi promozionali, dagli
inviti al risparmio che talvolta inducono ad un maggior consumo, ecc. ecc.
(per riflettere: 100 anni fa i bambini erano scheletrici, 70 anni fa erano
magri, 40 anni fa erano ben nutriti, oggi per lo più molto rotondi; mangiano
troppo, mangiano male e sono sempre pronti ad attivare più la mandibola che
non le gambe, come del resto gli adulti che dovrebbero fungere da esempio).
Tra gli obiettivi sempre più rincorsi oggi: salute, bellezza, efficienza,
il tutto disperatamente da realizzarsi al ritmo frenetico della fretta. Ciò
ha indubbiamente alterato il rapporto uomo-cibo. Inoltre per lo più si
mangia facendo e/o pensando spesso ad altro (sempre per non perdere tempo).
Ma siamo proprio sicuri che il tempo passato a tavola sia tempo perso?
Certo se la risposta fosse affermativa dovremmo dedurre che i nostri avi
sbagliavano a dare così grande importanza all'arte del convitare e poi
ancora se riflettiamo a fondo arriveremo a porci la domanda: senza i
convivi, i banchetti, i simposi si sarebbe sviluppata in maniera così
accentuata e peculiare quell'altra arte così legata alla tavola?: la
diplomazia. Un buon diplomatico (a detta di molti addetti) a tavola è spesso
più utile alla pace di un trattato concordato con qualsiasi altra forma di
dialogo. Se pensassimo a tanti vari politici e diplomatici e leggessimo la
loro storia ce ne renderemmo ben conto.
Ma a titolo di esempio prendiamo: Talleyrand uomo della rivoluzione,
restaurazione, ministro di Napoleone, dei Borboni, (quindi uomo di tutte le
stagioni), tempista eccezionale nello sfruttare le debolezze umane, e
certamente uomo assai debole di fronte alle golosità. Rileggendo la storia
della sua vita emerge che manovrò così abilmente la politica internazionale
con i buoni cibi da riuscire perfino a far sedere Napoleone alla tavola
della pace tra le grandi potenze dopo Waterloo. Suo motto: "Quando un
trattato va male, bisogna offrire un pranzo" e i suoi pranzi davvero
stupivano perché finalizzati ad un calcolo preciso "Stupire gli invitati"
perché - egli sosteneva - "lo stupire apre le porte alla simpatia e questa
in genere giunge al consenso". Sempre servizievole a tavola usava
rivolgersi:
• ai superiori di rango con: "Posso avere l'onore di servirvi?"
• ai pari di rango con: "Mi concedete il piacere di servirvi?
• agli inferiori con: "Volete servirvi?"
Ma sempre porgeva il vassoio. E quindi il motto dovrebbe essere: "Torniamo
al passato, sarà un progresso per tutti", (come disse G. Verdi), non proprio
in senso stretto. È certo, comunque, che non dobbiamo, non possiamo e spero
non vogliamo, in un momento di sì galoppante mondializzazione, disperdere
allegramente il patrimonio storico-culturale dell'uomo legato al bacino
mediterraneo (il nostro dunque). Riflettiamo, invece, che la golosità è
certamente fra i vizi il più "scusabile":
• vuoi perché viene dal basso;
• vuoi perché bene o male tutti ne andiamo soggetti;
• vuoi perché non è troppo lesiva nei confronti degli altri, se mai ricade
in malo modo su chi ne abusa;
• vuoi perché nessuno confesserebbe in pubblico di essere negligente, avaro,
invidioso, ma certamente non avrebbe problemi a confessare la propria
"debolezza" per i profitteroles?
E poi in ultimo consoliamoci con il grande: Gioacchino Rossini (che tra
l'altro era assai goloso dei "fagioli di Sorana") che un giorno confessò di
aver pianto tre volte nella sua vita: quando gli fischiarono la sua opera,
quando ascoltò suonare Paganini e anche quando gli cadde in acqua un
tacchino farcito al tartufo.
E ancora, forse pochi sanno che Alexandre Dumas, conosciuto per aver scritto
"I Tre Moschettieri", è l'infaticabile autore del "Dizionario della cucina"
(1500 pagine) e potremmo continuare ben oltre...
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